RIONE XIII Trastevere
Origine Araldica
Questo Rione per insegna della sua Bandiera innalza una Testa di Leone in Campo Rosso. Conserva l' antichissimo nome, l'ampiezza, e il sito, in tutto corrispondenti alla prisca Regione nomata Trans tiberina il nome deriva dal latino trans Tiberim ( al di là del tevere), che era il nome antico della regione augustea; questo perchè la città ebbe origine e principale sviluppi invece nell' opposta sponda.
Trastevere, il XIII rione di Roma, ha una super¬ficie di mq. 1.800.831 e contava, secondo il censimento del 1981, 17.144 abitanti residenti (di cui 8.147 maschi e 8.997 femmine), mentre il numero dei presenti (residenti anagrafici — temporaneamente presenti — i temporanea¬mente assenti) sempre nel 1981 ammontava a 19.255 (di cui 9.716 maschi e 9.539 femmine). Ma dal 1981 la popolazione è calata a circa 10.000 individui a causa dei vari sfratti e dell'e¬sodo di artigiani.
confini attuali sono: fiume Tevere (esclusa l'i¬sola Tiberina) - ponte Sublicio - Mura Urbane - porta Portese (inclusa) - Mura Urbane - largo di Porta S. Pancrazio - Mura Urbane - piazza della Rovere - ponte Principe Amedeo Savoia Aosta - fiume Tèvere.
Lo stemma è costituito da una testa di leone d'oro in campo rosso. I significati di questa fi¬gura sono vari, poiché alcuni nel campo rosso hanno ritenuto di vedere il sangue dei martiri cristiani di Trastevere fra i quali l'apostolo S. Pietro, S. Callisto, S. Urbano, S. Pigmenio. S. Simplicio, S. Faustina, S. Cecilia, S. Callepo- dio. Per alcuni il leone è il simbolo della forza e del potere dell'Urbe che è rappresentata dai fieri Trasteverini; c'è chi ha visto in quest'inse¬gna una parte di quella della famiglia Anicia in cui figurava il leone; per altri, infine, il leone si richiamerebbe al partito guelfo, dato che molte nobili e potenti famiglie abitanti in Tra¬stevere erano guelfe.
rione deriva il nome dal latino trans Tiberim (al di là del Tevere), perciò regio transtiberina fu anche chiamato e divenne la xiv regione, un grande quartiere suddiviso in 78 vici, quan¬do l'imperatore Augusto, su consiglio dell'edile in Agrippa, divise il territorio di Roma nelle Tra quattordici regioni. Tuttavia, solo all'epoca di Aureliano (270-275), questa regione fu inclusa nel pomerio, cinta di mura ed ebbe una vasta estensione, comprendendo anche il piano fra il monte Vaticano e il Tevere. Per il Lanciani i confini si estendevano «dal Tevere al tempio della Fortuna, ai giardini di Domizia ne' Prati (compresa l'isola Tiberina), agli spartiacque dei colli Gianicolense e Vaticano». Per quanto attiene al vocabolo rione, nel Cata¬logo di Torino del 1330 circa è precisato che «In Urbe sunt tredecim regiones quae corrupto vulgari vocabulo dicuntur rioni» (in Roma vi sono tredici regioni [territori] che con parola corrotta sono chiamate rioni), anche se all'e¬poca augustea si parlava di «Urbs regionum quattuordecim» (città delle quattordici regio¬ni). I criteri con i quali l'amministrazione im¬periale eseguì la divisione del territorio roma¬no non ci sono noti e aggiungiamo che i «quar-tieri» della città papale, pur delimitati con una alquanto diversa ripartizione territoriale sono stati chiamati rioni quasi per far sopravvivere la parola latina regiones (regione, reione, rio¬ne).
Sisto v nel 1586 fissò i quattordici rioni, ag¬giungendo a Trastevere, che era diventato xm, il rione Borgo; ma fu nel 1744 che il Bernardini, incaricato da Benedetto xiv, compì la revi¬sione e la delimitazione dei rioni. Trastevere, al tempo dei re (754-509 a.C.), era una sponda ostile, la terra degli Etruschi, un pericolo per Roma, che l'occupò perché era un posto necessario per sorvegliare il fiume d'am- 9
bo le parti. Tuttavia, Roma non contava trop- 1 po allora sul possesso di Trastevere, tanto che si unì a questo solo con un debole ponte di le¬gno, il Sublicio. Sorsero santuari come quello della dea Fors Fortuna (dell'epoca di Servio Tullio) e quello della dea Dia. Muzio Scevola vi aveva la sua campagna (Praia Muda), Lucio Quinzio Cincinnato coltivava la terra (Praia Quinctia); sul Gianicolo vennero sepolti Numa Pompilio e i poeti Q. Ennio e Cecilio Stazio.
Trastevere rimase sempre «un labirinto di viottoli costeggiati da miserabili casupole irte di torri addossate a disfatti e anneriti monumenti dell'antica Roma» (P. Romano). Le torri, è evi-dente, erano state costruite per propria difesa da famiglie nobili e da cardinali e si ergevano minacciose vicino a casupole povere e indifese, che, nei casi di maggiori possibilità economi¬che, erano fatte di mattoni, con finestre che ri¬chiamavano quelle greco-romane e con portici a colonne. Le più modeste, invece, avevano le scale rozze e scoperte. I monumenti antichi fornivano molto materiale tanto che ancor og¬gi nei vecchi muri vediamo occhieggiare rocchi di colonne, pezzi di sarcofagi e di trabeazioni. Le case più ricche si congiungevano con archi che divenivano veri passaggi coperti, talvolta così bassi da non consentire il passaggio di car¬ri. Squallida, invero, era la visione di tanti abi¬turi privi di camini, dalle cui porte usciva il fu¬mo, dai cui tetti si riversava l'acqua piovana da grondaie rozze sulle strade nel più fortunato dei casi selciate, ma prive di possibilità di de-flusso. Le acque ristagnavano e alimentavano erbacce che rigogliose nutrivano le pecore di passaggio. L'ingresso delle botteghe, con archi-trave di legno, era occupato, per metà, dal ban¬cone che restringeva il passaggio. Le strade per lungo tempo non solo non furo¬no lastricate, ma neppure «imbrecciate». Con Sisto iv della Rovere (e siamo nel tardo Quat-trocento) se ne pavimentarono alcune con mat¬toni di laterizi, messi a coltello o a spina di pe¬sce, considerati più igienici dei selci perché per¬mettevano al terreno di traspirare; ma l'attrito delle ruote dei carri costrinse ad optare per la pavimentazione in selci chiamati «sampietri¬ni». Questo nome fu esteso anche agli operai specializzati che lavoravano in S. Pietro alle di-pendenze di Nicola Zabaglia, ingegnoso mura¬tore e inventore di utili espedienti. Così, ai mattoni prediletti da Sisto IV si giunse alla pa¬vimentazione silicea con Sisto v (1585-1590). Per quanto concerne l'illuminazione, fino a tutto il Settecento le strade ne furono prive. Le osterie spesso avevano un lume, per indicare, non certo disinteressatamente, la loro ubica-zione ai fedeli frequentatori; numerosissimi i lumi davanti alle immagini sacre. Così i fedeli (dal vino al di... vino) potevano passare sotto gli archi, sotto i cavalcavia e attraversare le strade più agevolmente. Comunque, i prudenti si munivano di lanterna personale; e pure i pa¬trizi, che di notte se la spassavano, avevano al fianco il fido servitore con lanterna, che dove¬va essere abbassata verso terra, quando un gruppo si imbatteva in un altro: «Volti la lan¬terna!» si gridava d'ambo le parti, come oggi di notte gli automobilisti educati (ci sono?) do-vrebbero spegnere i fari abbaglianti di fronte a vetture che procedono in senso inverso. Prati¬camente quell'avvertimento più o meno impe-rioso voleva dire che ognuno aveva diritto e di non farsi riconoscere e della propria oscurità. Le carrozze marciavano a passo d'uomo prece-dute da un valletto che illuminava la strada con fiaccola. Le rive del Tevere erano rese praticabi¬li dai fuochi dei navicellai e dalle lanterne delle barche. Affacciavano sul Tevere casupole e bei palazzi, giardini e terrazze «veri paradisi di ver¬de col capo coronato d'oleandri, di cedri, di aranci, di pampini e col piede proteso trasan¬datamente nell'acqua» (Baracconi). Il Tevere è stato nel passato croce e delizia di Roma, pure se non possiamo dissentire dal Le Gali che conclude: «Sans le Tibre, Rome n'au- rait pas existé».
ponti che unirono la zona di Trastevere con l'opposta riva sono vari. Primo il ponte Subli- cio, il più antico di Roma, costruito da Anco Marcio nel VII sec. a.C. e difeso eroicamente da Orazio Coclite; ristrutturato in pietra verso il 732, scomparve nel sec. XI.